A Roma è difficile morire di fame, questo è evidente.
Tuttavia, la fame può assumere diverse forme: dalla voracità alla fame da lupi; dall’ottimo appetito a quel languorino, a quel nonsocchè che ti fa venire, come diceva un famoso spot degli anni ’90, “voglia di qualcosa di buono”.
Per tutte queste evenienze Roma offre una soluzione one-stop: Er Pizzicarolo.
Non è ben chiaro se il suo nome derivi più dal fatto che anticamente i salumi, non essendo disponibili tutti i conservanti di oggi, erano ben infarciti di spezie piccanti, pertanto “pizzicavano”.
Oppure se il suo nome derivi dal fatto che, offrendo assaggini ai suoi clienti, ciò che il pizzicarolo offre va colto con il pollice e l’indice chiusi a morsa, quindi con il “pizzico”; oppure ancora se il suo nome sia derivato dal fatto che questo mestiere è nato, nella notte dei tempi, prevalentemente vendendo pizze e formaggi.
Fatto sta che le “pizzicherie” di Roma sono una delle immagini più vere, più autentiche e tipiche di questa città.
Altrimenti detta “il pizzicagnolo”, questa allegra, ospitale e rubiconda figura popolare ha sempre rivestito grande importanza nelle piccole comunità rionali.
Oggi, forse, il termine “salumiere” ha pure preso piede nel gergo popolare, affiancando la denominazione tradizionale.
Sono infatti venute meno, nel corso degli ultimi decenni, le insegne con la storica (e filologica) denominazione “pizzicheria”, da cui deriva senza ombra di dubbio il verbo “spizzicare”, cioè, per l’appunto, cogliere con le dita bocconcini prelibati (quello che gli americani chiamano “finger-food”), con i quali rendersi la vita più dolce e più vivibile.
Piccole “coccole” quotidiane, con le quali, come direbbe qualche anziano romano “l’omo campa”…
E pensare che esiste anche una vera e propria dimensione artistica, di questo antico e amato artigiano.
Nel tempo pre-pasquale, infatti, i pizzicaroli romani sono soliti allestire e decorare le loro botteghe come se fossero dei templi; e come dar loro torto: sta per arrivare uno dei rituali principali dell’anno, il pranzo pasquale, e la loro bottega è il tempio ove si possono reperire i più degni ingredienti per celebrare tale rito.
Le forme di parmigiano, sovrapposte l’una all’altra, diventano colonne; i prosciutti, le salsicce, i salami, i limoni e le foglie d’alloro creano eccezionali mosaici sui soffitti.
Si accendono candele fabbricate con grassi animali; con il burro e la ricotta si creano statue sacre paragonabili a quelle d’alabastro, in una commistione di sacro e profano che – in una sola parola – è Roma stessa.
Specchi disposti ovunque riflettono luci, sculture e piramidi di frutta.
Tutto ciò è architettato dal pizzicarolo in persona, non tanto e non solo per il mero profitto, e per farsi pubblicità, ma soprattutto per devozione, e per amore del bello, che inevitabilmente si deve sposare al buono.
Tale preparazione può richiedere al pizzicagnolo anche due giornate di lavoro, di estro e fatica, per dilettare la sua clientela, e per dilettarsene egli stesso.
Come narra Giuseppe Gioachino Belli:
Colonne de caciotte che saranno
Scento a ddì poco, arreggono un’arcova
Ricamata a sarsiccie e lli ce stanno
Tanti animali d’una forma nova.
Fra ll’antro in arto sc’è un Mosè de strutto
Cor bastone per aria come un sbirro;
In cima ‘na montagna de prosciutto,
E sott’a llui pé stuzzicà la fame.
Scè un Cristo e ‘na Madonna de butirro,
Drento a ‘na bella grotta de salame.
Diletto per tutti e anche per i grandi poeti di Roma, Er Pizzicarolo ispirò a Trilussa questi versi in cui, dolendosi il poeta della sua asfittica condizione economica, diceva:
S’io nun ciavevo moje, s’ero solo,
si facevo una vita un po’ più seria,
ero più ricco d’un pizzicarolo…