Trentacinque chili d’oro che dormono in fondo al Tevere da secoli.
Chi sarà bravo a trovarli?
Il Tevere, dopo aver trainato per secoli l’ascesa di Roma al ruolo di potenza planetaria, fu praticamente abbandonato nel Medio Evo.
Non arrivavano più da tutto il mondo, cariche di merci pregiate, la navi mercantili, le quali, semmai, avevano lasciato il posto ai pirati che infestavano il Mediterraneo.
Rimaneva, tuttavia, l’attesa di veder riemergere antichi tesori.
Si pensava che il Tevere avrebbe restituito quei tesori a chi li avesse cercati con costanza e determinazione.
Nel corso dei secoli, tale speranza fu nutrita e confermata da una grande quantità di ritrovamenti: opere in marmo, monete, armi antiche…
Per secoli, il “cercatore di fiume” fu un vero e proprio mestiere.
Numerose chiese, a Roma e nel mondo, sono ricche di pezzi pregiati “ripescati” nel Tevere.
Tuttavia, una delle più famose leggende sui misteriosi tesori custoditi nel Tevere, è quella della presenza nel suo letto della Menorah, il candelabro a sette braccia del Santuario di Gerusalemme, di cui i Romani si impossessarono nel saccheggio del 70 d.C.
Era d’oro massiccio, pesava circa 35 kg., e rimase visibile a Roma nel Tempio della Pace fino al II secolo d.C.
Si ritiene che sia stato portato via nel V secolo dai Vandali di Genserico.
E ora dove sarà?
Esistono varie teorie a proposito, ma la più accreditata è quella che il popolo romano tramanda da secoli: l’antica e preziosa Menorah giace da decine di secoli nel letto del Tevere, tra l’Isola Tiberina e Ponte Rotto.
Alla metà del Settecento, la Comunità Ebraica di Roma chiese il permesso di scavare il letto del Tevere alla ricerca del prezioso oggetto di culto.
Nell’Ottocento, un certo Giuseppe Naro dragò il Tevere, col permesso di Papa Pio VII, a bordo di una nave speciale, con la quale “ripescò” vicino all’Isola Tiberina 44 reperti pregiati, tra i quali, tuttavia, non figurava il candelabro d’oro.
Il 10 settembre del 1830, le corde poetiche del grande Giuseppe Gioachino Belli cantano la vicenda in questo grazioso sonetto:
“Sto cornacopio su le spalle a cquello
Che vviè appresso a cquell’antro che vva avanti,
C’ha ssei bbracci ppiù llonghi, e ttutti quanti
Tiengheno immezzo un braccio mezzanello;
Quello è er gran Cannelabbro de Sdraello,
Che Mmosè ffrabbicò cco ttanti e ttanti
Idoli d’oro che ssu ddu’ lionfanti
Se portò vvia da Eggitto cor fratello.
Mó nnun c’è ppiù sto Cannelabbro ar monno.
Per èsse, sc’è; ma nu lo gode un cane,
Perché sta ggiù in ner fiume a ffonno a ffonno.
Lo vòi sapé lo vòi dov’arimane?
Viscino a Pponte-rotto; e ssi lo vonno,
Se tira sù pper un tozzo de pane”
Le più avanzate tecnologie aerospaziali potrebbero, oggi, aiutare la grande anima del Belli a dimostrare la sua teoria.
Con l’ausilio dei satelliti, infatti, oggi è possibile individuare oggetti affondati anche a centinaia di metri, e non più grandi di un comunissimo melone.
Basterebbe volerlo, o, per dirla con Giuseppe Gioachino Belli, “ssi lo vonno…”